MUSICA CONTEMPORANEA – IL COMPOSITORE PAOLO CAVALLONE PERSONAGGIO DELL’ANNO PER IL GERME
Il compositore Paolo Cavallone personaggio dell’anno per Il Germe
Note d’autore
Intervista
Annuario 2022 – Il Germe – riproduzione vietata
Per il Putsch, prestigiosa rivista francese, è “uno dei maggiori compositori di oggi” e non perché all’ombra della Tour Eiffel Paolo Cavallone ci passa una fetta importante della sua vita e della sua carriera. E d’altronde le sue partiture hanno fatto il giro del mondo: dalla Nuova Zelanda, agli Stati Uniti, dalla Francia, all’Italia, dove le sue “note d’autore” sono state pubblicate da Rai Com e diffuse sulle frequenze di Radio Rai, oltre che Radio France, Radio New Zealand, Radio Capodistria, Radio Città Futura o Radio da Universidade UFRGS, in Brasile. In giro per il mondo, dalla Manhattan School of Music all’Università di Pittsburgh, ha tenuto conferenze sulla sua musica, considerato come uno dei compositori più rappresentativi della sua generazione, soprattutto per l’apertura estetica dei suoi lavori. La passione per la musica, che ha coltivato al Conservatorio dell’Aquila dove si è diplomato in Strumentazione per Banda e in Pianoforte nel 1999, e ancora in Composizione nel 2001, è però solo una delle sue declinazioni artistiche: poeta, scrittore, regista, filosofo, Cavallone vanta collaborazioni internazionali di altissimo livello ed è titolare della cattedra di Elementi di Composizione al Conservatorio “Vivaldi” di Alessandria dal 2 novembre scorso.
Nato a Sulmona 47 anni fa, con la sua terra conserva un rapporto stretto, nonostante in patria si sia faticato per riconoscerlo “propheta”. Quest’anno, però, ha ottenuto dalla Regione Abruzzo il titolo di Ambasciatore d’Abruzzo nel mondo e, a settembre scorso, anche Sulmona, grazie alla Camerata musicale sulmonese, gli ha riconosciuto un premio alla carriera. È qui, nella Sala Azzurra della Camerata musicale, dove Cavallone è cresciuto con il maestro Gaetano Di Bacco, che lo incontriamo per parlare della sua vita e della sua arte.
Siamo a due passi dall’Annunziata, uno dei monumenti che la ispirano ha detto in un’intervista. Perché?
Il complesso dell’Annunziata ha subìto diversi crolli nella storia a causa di terremoti. Di volta in volta è stato ricostruito nello stile proprio dell’epoca in cui avveniva il “ritocco”; così, quel che vediamo oggi è il risultato di elementi trecenteschi, quattrocenteschi… il campanile è rinascimentale, la chiesa barocca. Eppure, nel suo complesso, è un’opera bellissima; un miracolo architettonico incantevole perché attraversato da una stessa metafora che si è riconfigurata attraversando vari periodi storici (e che le che conferisce unità formale). In questo senso rappresenta la storia della nostra cultura, come pure la direzione estetica delineatasi negli ultimi anni.
Muove da questo la “poetica dell’attraversamento”, come è stata definita la sua musica?
Oggi si sente spesso parlare di ibrido, collage, crossing style, ma la mia musica è più di un attraversamento in senso orizzontale: ogni ambito che esploro cerco di scavarlo in profondità, fino al midollo. Noi veniamo dagli antichi romani e abbiamo una profondità storica che ci dà coscienza e consapevolezza della nostra essenza. Tale dinamica e la sua metafora si riconfigura continuamente nel tempo e ci configura in quanto cittadini della nostra epoca: una stratificazione che dal passato ci porta al futuro.
Insomma, non possiamo fare a meno delle nostre radici
In una società globalizzata un oggetto sonoro può assumere un valore e significato diverso a seconda della prospettiva dal quale viene inquadrato. Il suono fonetico dai” in italiano vuol dire muoversi, in inglese morire. Un suono ha un valore diverso a seconda del contesto in cui nasce e in quello in cui viene fruito. Nel Novecento avere un certo atteggiamento compositivo, progressista, voleva dire essere “affiliato” ad un pensiero di sinistra; essere legato ad una scrittura tradizionale, invece, significava essere conservatori, dunque di destra. Ciò che era di sinistra ad Occidente, era degenerato e fascista nel Blocco Sovietico e viceversa. Dunque, l’angolazione dal quale si inquadra ogni dinamica del vissuto – ed il suo corrispettivo “sonoro” – conferisce diverse chiavi di lettura, anche radicalmente opposte.
E lei quando compone che prospettiva assume: la sua o quella del pubblico-fruitore?
Il confronto è sempre con il reale, perché è da questo confronto che nasce l’opera. C’è stato un momento nella storia, un miracolo nell’Occidente, in cui per circa un trentennio, ovvero il periodo classico di Haydn, Mozart e del primo Beethoven, l’opera, l’oggetto neutro in termini semiotici, si caricava degli stessi bisogni e significati sia dalla prospettiva di chi componeva (processo poietico), sia dalla prospettiva di chi ascoltava (processo estesico). Le due angolazioni mostravano una perfetta aderenza di necessità e di significato: un’armonia che viene definita come equilibrio classico. Poi con la Rivoluzione francese questo equilibrio si romperà e non verrà mai più raggiunto. Nasceva così un conflitto interno all’uomo e alla contingenza che lo accoglie capace di provocare quel dolore sordo che attraverserà la nostra società per i secoli a seguire. Cambiava così l’approccio all’arte, che diventava di conflitto con il reale: a partire dal Romanticismo in poi saremo attraversati da un grande dolore. Quel dolore des jungen Werthers – o del Mal du siècle di cui parla Madame de Staël– che imploderà negli esiti della soggettività di Van Gogh o nello spirituale dell’arte espressionistico, riflesso in seguito nel messaggio delle avanguardie storiche, fino all’alba del nuovo millennio.
A proposito di conflitti, l’Occidente sta vivendo un periodo molto turbolento
Quando si pensa a sé stessi e non ci si confronta sinceramente con il reale – quindi quando non si cerca la giustizia – si perde il lume, la sapienza e il discernimento. Siamo alle porte di una nuova epoca: o meglio, ci siamo chiaramente entrati. Sto scrivendo un libro a tal proposito: una serie di saggi che esplorano i nuovi significati delle dinamiche del nostro tempo e come questi si riflettano nelle figure degli oggetti sonori ad esso relativo.
La musica è uno strumento politico o strumento della politica?
La musica è anche politica, nel senso di confronto con il reale e con la ricerca della Verità. Come accennavo, ogni opera è il risultato del confronto (e della collisione) con il reale. In tal senso la musica è politica, nel senso nobile del termine. Altro è la propaganda: piegare l’arte al potere, vuol dire uccidere l’arte. Perdere il confronto con il reale, il fil rouge della nostra esistenza nella ricerca della Verità (oggi sempre più nascosta dietro maglie di costruzioni ramificate), fa venire meno l’arte.
La sua musica è profondamente legata ad un pensiero poetico e direi ad una chiara visione estetica. Ce ne può parlare?
L’estetica è la conseguenza dell’etica, vale a dire della nostra concezione – anche morale – del vissuto, nell’immersione totale nel reale: distinguo un reale sociale da un reale effettuale, nascosto dietro le “cose”. Soltanto inquadrando dalle più diverse prospettive il caleidoscopio di colori che propone la nostra società è possibile scavalcare l’impedimento che questi stessi colori creano. La nostra è una società che tende a sradicarci dal suolo: assistiamo alla cristallizzazione ed alla standardizzazione degli esiti prodotti nei secoli passati. Anche nella musica pop, ad esempio, è spesso difficile distinguere un cantante da un altro. Si è creata una vera e propria rete invisibile che ci impedisce, come uno schermo di “tornare alla terra”, al suolo, alla profondità del nostro essere: in altre parole, alla realtà effettuale. Il suono ha il potere, nella sua astrattezza, di bucare le maglie di questa rete/schermo invisibile e proiettarci in un ambito metafisico (mi si passi il termine), dove la nostra distanza con l’indicibile, si accorcia il più possibile: dove ci si avvicina alla Verità (lo dico in senso poetico, parafrasando Pascoli). L’estetica è, quindi, la punta della montagna dell’etica, nel rapporto con il reale. Pensi che nel Vangelo di Giovanni Dio crea con il suono: al principio era il Verbo, ossia la parola, il suono creatore. Il mio è un approccio di apertura alle possibilità dell’esistere e dell’essere. L’incontro con il pensiero di Nicola Abbagnano è stato fondamentale. La definizione stessa di Esistenzialismo positivo si configura come un ossimoro a priori, nel senso che l’esistenzialismo è pensiero dichiaratamente negativo. Renderlo positivo, vale a dire inquadrarlo da un’altra angolazione ha rappresentato per me uno stimolo intellettuale notevole. Abbagnano proponeva il suo approccio come alternativa, sia al pensiero dogmatico e/o religioso, sia all’esistenzialismo o al pensiero negativo. Naturalmente, io non ho questa intenzione; è l’intuizione in sé che mi ha colpito. Lo scacco dell’impossibilità dell’esistenzialismo diventa con Abbagnano possibilità trascendentale. Personalmente, questa apertura di senso mi ha proiettato verso una possibilità trascendente, nella realizzazione di uno spazio dal quale poter inquadrare i tanti colori della società, superarli (lo dico senza cautela) ed arrivare alla radice delle “cose”, proiettati verso la ricerca della Verità.
Detto in musica, come si esplicita l’apertura di senso di cui parla?
Le faccio un semplice esempio: due note, La-Si bemolle, nel sistema temperato rappresentano la distanza più piccola tra le altezze, vale a dire un semitono. Addirittura, potremmo definire l’incontro verticale di queste due note come un accordo di sol minore (aumentando l’ampiezza focale dello sguardo). Ma tale distanza fra le note è la più piccola in un sistema artificiale creato in seno alla società occidentale nel XVIII secolo: questo stesso intervallo in una dimensione interna al suono, che Giacinto Scelsi avrebbe definito “sferica” diviene una distanza enorme. Pensi al canto di un guru indiano, ad esempio, che canta in una dimensione microtonale (con intervalli di quarti e terzi di tono; quindi, inferiori al semitono) “le note fra le fessure del pianoforte”, come le chiamava Charles Ives, elaborando il suono per ore. Come vede, il concetto di “distanza” diviene relativo.
Quando si parla di estetica e politica, però, non si può non pensare a Gabriele D’Annunzio.
Su D’Annunzio ho composto in versi un lavoro destinato al teatro di prosa: uno spettacolo di teatro, musica e danza che sarà presentato prossimamente nei teatri. Un D’Annunzio parla con le parole di Pasolini o di Gadda, trovando una inattesa complementarità. Un Vate che perde così un aspetto ideologico di cui era stato caricato negli anni del fascismo, anno in cui era stato strumentalizzato. Pasolini non amava D’Annunzio, molto probabilmente perché rappresentavano l’uno dell’altro il negativo e il positivo della medesima immagine. D’Annunzio era anarchico e questo aspetto lo avvicina a Pasolini, un comunista eretico: “politici” in senso alto. Libertini entrambi in modi differenti: narcisisti. Il corpo e il rapporto con esso fu fondamentale. Quel “dannunzianesimo inconfessabile” di cui parlava Carmelo Bene riferendosi al film Salò.
L’opera di cui è più orgoglioso qual è?
Quando compongo dormo molto poco, cammino per la stanza, con i fogli e i quaderni sparsi per terra o sui muri. Il momento della creazione è un’immersione totale, avvolgente, completa, che mi consuma. Una volta pronta l’opera, però, non la posso più sentire. Quindi il lavoro di cui vado più orgoglioso è quello che devo ancora creare, il prossimo che farò.
Ce n’è una che è rimasta però, per così dire, in sospeso. E non per colpa sua. Quella che doveva essere dedicata a Ovidio.
Ero stato invitato a presentare un progetto per il Bimillenario. Era per me, che sono e mi sento di Sulmona, un motivo di orgoglio e di sfida, per questo mi ero reso disponibile e avevo pensato ad un’opera che avrebbe coinvolto dei ballerini dell’Opéra di Parigi, che peraltro avevano inviato a Sulmona il loro responsabile per un sopralluogo. Il Comune doveva partecipare alle spese, che in considerazione della portata dell’evento risultavano irrisorie: cachet amicali. Erano previsti 12 ballerini dell’Opéra accompagnati da un ensemble strumentale costituito da 13-14 elementi di Sulmona, e del comprensorio, di grande professionalità e bravura che mi sarei preso la briga di mettere insieme. Come si usa dire “ci ho messo lavoro e faccia” e infine il messaggio è stato che il Comune non aveva fondi. Dinamiche del genere possono compromettere le relazioni professionali, come non è difficile immaginare per simili casi. Pensi che il logo del Comune di Sulmona era già stampato sulla partitura di un altro mio lavoro edito da Rai Com: Metamorfosi d’amore, un doppio concerto per flauto violoncello e orchestra che doveva essere ispirato ad Apuleio e che trasformai esplicitamente, dopo intesa col Comune, per il Bimillenario di Ovidio e per preludere al balletto. In questa veste lo presentammo all’Opera di Rennes in Francia con l’Orchestra Nazionale di Bretagna e in Italia con l’Orchestra del Friuli: un mio omaggio a Sulmona.
Le piacerebbe recuperare il progetto del balletto?
Con le persone giuste senz’altro. Ma è necessario un ampio respiro di vedute: è ciò che auguro a questa città.
Qual è il suo rapporto con Sulmona
Sulmona per me è il luogo dei ricordi, della memoria, degli affetti, dell’ispirazione. Penso che non si nasca in un luogo a caso, le radici ci appartengono e ci rendono quel che siamo. Ho un rapporto anche fisico con la mia terra: contemplare la Majella mi calma, come se mi accogliesse in grembo. Mi abbraccia. Sono legato ai suoni di questa terra e sono quelli che ho ascoltato sin da quando ero nel grembo di mia madre. Quei suoni curano e procurano traumi, che sono passaggi di crescita.
Un’ultima domanda. Ha scritto con il grande autore di canzoni Andrea Lo Vecchio, recentemente scomparso, quella che poi è stata la sua ultima canzone. Perché lei non si occupa solo di musica classica. Ce ne può parlare?
Avevo incontrato Andrea Lo Vecchio qualche anno fa per proporgli un progetto di musica di ricerca basato su alcuni suoi brani che trovo abbiano delle caratteristiche di “apertura” (penso a “E poi” o “Magica follia” che scrisse per Mina), quindi adatti ad essere elaborati in direzione del mio pensiero estetico. Andrea ne era entusiasta e avrebbe voluto anche che io elaborassi un nuovo arrangiamento di “Ormai”. Da questa collaborazione ci ritrovammo a scrivere una canzone insieme durante il periodo della pandemia. Purtroppo, subito dopo lui è venuto a mancare. La canzone si intitola “Basta un attimo” e recita: “Ti ritrovi in un barattolo, con l’aria che mancherà. Amico tu pensaci, sai che può succedere”. La figura dell’amico Andrea è comunque viva poiché diverse iniziative sono state assunte in sua memoria, fra i quali un premio internazionale della critica a lui dedicato nella manifestazione internazionale Romix e una biografia di prossima pubblicazione di Colaprete: “A modo mio… Basta un attimo”. Con Andrea ci siamo influenzati a vicenda e il frutto della nostra collaborazione ha segnato nuove aperture e linee artistiche per il futuro.
Il Germe © 2022